…non ci è dato di sapere, al mondo…
Nulla di nulla…
Dove afferrarti, o natura infinita?
Nulla di nulla…
Dove afferrarti, o natura infinita?
(Goethe, “Faust”)
"Il concetto di natura rappresenta certamente uno dei grandi temi del Romanticismo, specie di quello tedesco. Infatti l’amore ed il fascino per essa costituiscono uno dei dati più caratteristici del periodo, che affonda le sue radici nel clima culturale dello Sturm-und-Drang e che filosoficamente si alimenta della riscoperta del pensiero di Spinoza.
Appunto il nome di Spinoza si cela dietro questo movimento di idee; durante il settecento molti suoi testi esercitarono una nascosta influenza sulla cultura tedesca, senza che mai questo filone di pensiero abbia potuto uscire allo scoperto."
Prosegui la lettura della relazione di G. Lidissini...
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Il nome di Spinoza era collegato all’ateismo e così “spinoziano” era sinonimo di “ateo”. Poi nel 1785 Jacobi, uno degli intellettuali che collegano la cultura illuminista all’universo romantico, pubblica “le lettere sulla dottrina spinoziana”; si tratta di un testo che ebbe un grande successo e che aprì intensi dibattiti sullo spinozismo divenuto decisivo per la prima generazione dei giovani romantici. Per comprendere il significato di questo dibattito, bisogna tener presente che la visione scientifica della natura non era soddisfacente per i romantici i quali vedevano nella cieca necessità del corso del mondo un segno estremamente forte della scissione tra l’uomo e la natura, tra la libertà morale a cui aspirano e la necessità naturale che il meccanicismo di stampo illuminista, ed in ultima analisi cartesiano, aveva reso celebre. In Spinoza al contrario, i romantici possono rintracciare una visione della natura assai diversa, e soprattutto un legame profondo tra l’uomo e il mondo da opporre al piatto meccanicismo, incapace di rendere ragione dello spirito dell’uomo.
Non è immune da questa atmosfera di “neo-spinozismo” ramanticheggiante di fine secolo neanche il grande poeta tedesco Goethe (1749-1832) che così si esprimeva:
“Natura! Noi siamo da essa circondati ed avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finchè, stanchi, cadiamo nelle sue braccia. Essa crea eternamente nuove forze: ciò ch’è ora non era ancora, ciò che era non torna; tutto è nuovo, e nondimeno è sempre antico. Noi viviamo nel mezza di essa, e le siamo estranei. Essa parla incessantemente con noi, e non ci palesa il sua segreto. Noi operiamo costantemente su di essa tuttavia non abbiamo su di essa alcun potere. Pare che la natura tutta abbia indirizzato verso l’individualità, eppure non sa che farsene degli individui. Artista incomparabile, senza apparenza di sforza passa dalle opere più grandi alle minuzie più esatte. E’ intera e nondimeno sempre incompiuta. Non conosce passato e futuro; il presente è la sua eternità.”
L’interpretazione di Spinoza data dai romantici non è per la verità molto rispettosa dell’autentico pensiero del filosofo olandese. Questa forma di spinozismo è a tutti gli effetti qualcosa di originale, una creazione propria della fine del settecento. I romantici hanno sottolineato l’unità tra il principio assoluto del mondo (quello che Spinoza chiamava “sostanza” o “natura” o “Dio”) e la realtà dei corpi e dei pensieri, secondo la celebre formula spinoziano: “l’ordine e la connessione delle idee si identifica con l’ordine e la connessione delle cose”. Hanno quindi costruito la celebre forma dell’uno-tutto, “en kai pan”, che costituisce uno dei simboli del romanticismo tedesco. Ecco come si esprimeva in proposito il poeta Holderlin (1770-1843) in un noto passo dell’ “Iperone” :
“O natura santa! Io non sa cosa mi avvenga quando alzo i miei occhi dinanzi alla tua bellezza, ma tutta la gioia del cielo è nelle lacrime che piango innanzi a te, come l’amante alla presenza dell’amata. Tutto il mio essere ammutolisce e si tende, quando il soffio delicato dell’aria gioca sul mio petto. Perduto nell’azzurro sconfinato, io volgo spesso il mio sguardo in alto, verso l’etere e in basso nel sacro mare ed è come se uno spirito affine mi aprisse le braccia, come se il dolore della solitudine si dissolvesse nella vita degli dei. Essere uno col tutto, questa è la vita degli dei, questo è il cielo dell’uomo. Essere uno con tutto ciò che ha vita, fare ritorno, in una beata dimenticanza di sé, nel tutto della natura; ecco il vertice dei pensieri e delle gioie, la sacra vetta del monte, il luogo della quiete perenne, dove il meriggio perde la sua calura e il tuono la sua voce; dove il mare ribollente somiglia all’ondeggiare di un campo di spine.”
Questa formula dell’uno-tutto consente di interpretare la vita dell’uomo in chiave cosmica, come manifestazione della vivente forza della natura , unica energia vitale che si esprime tanto nella materia quanto nella sferza dello spirito. Consente pure di interpretare la natura come una realtà organica e non solo meccanica, vivente e non priva di qualsiasi forma di spiritualità.
Questa teoria non diverrà un corpo organico di teorie filosoficamente elaborate se non più tardi, presso gli idealisti. Al principio si trattò soprattutto di una maniera di vivere il rapporto con la natura in modo profondo, intimo, assai vicino alla sensibilità degli Sturmer. A Goethe risale del resto la prima definizione di queste idee, attraverso un’interpretazione in chiave organica della natura e in chiave panteista della divinità. Tale concezione è molto vicina ad una forma mistica di panteismo, ad una sorta di misticismo della natura: la vita dell’uomo è la stessa vita della natura, è espressione della stessa forza del tutto. Dio non è dunque una forza personale individuale distinta dal mondo, eterno spirito creatore, ma è tutt’uno con la vita del mondo. Per questo motivo l’uomo può trovare il rapporto con la divinità tanto nella profondità vivente del sue essere, da cogliersi attraverso un atto immediato di intuizione mistica, quanto nelle forze segrete e operanti della natura, da cogliersi attraverso una filosofia della natura che sia in grado di valorizzare gli aspetti organici.
Non sorprende che in questo ambito di ricerche i romantici si rivolgano al naturalismo rinascimentale, al culto della magia proprio del Cinquecento italiano ed europeo, e cioè a quelle fasi della ricerca scientifica che precedono immediatamente la rivoluzione cartesiana e galileiana. Il “ritorno alla natura” vagheggiato da Rousseau viene dunque intenso come un ritorno alla propria profonda origine vitale, al Dio che è in noi e che è in tutto.
In particolare i poeti, Holderlin soprattutto, contribuiscono a valorizzare questa posizione, questa sorta di naturalismo panteista e mistico. La natura costituisce più in generale lo sfondo su cui si innestano la ricerca religiosa dei romantici; rimanendo in ambito più strettamente poetico, il ritorno alla natura e il panteismo naturalistico trovano espressione in una mitica età dell’oro alla quale riferirsi e a cui fare ritorno. Schiller (1759-1805) parlava proprio di ritornare all’armonia degli antichi che con la loro “naive dichtung” vivevano l’armonia naturale al punto da identificare la poesia con la natura. E’ da qui che nasce quella che i romantici tedeschi definiscono la “sentimentalische Dichtun” , poesia sentimentale, ovvero una poesia che cerca la natura per ricordarla e desiderarla, insomma per tornare all’assoluto.
La moderna scienza aveva portato ad una despiritualizzazione del cosmo ed è proprio reagendo a tale concezione meccanicistica che i romantici ritenevano che la natura e l’uomo possedevano una
medesima struttura spirituale, la quale autorizzava un’interpretazione psicologica dei fenomeni fisici ed una interpretazione fisica dei fenomeni psichici.
Se infatti viene posta in unità la stretta relazione dell’uomo e la natura, se ne ricava che ciò che vale per l’uomo deve valere anche per la natura e viceversa. L’uomo era visto come il compendio vivente del tutto in cui dorme l’intera storia del mondo; di questa idea era per esempio Novalis (1772-1801):
“Che cosa è la natura se non l’indice enciclopedico sistematico o il piano del nostro spirito?”
E’ per questo motivo che molti romantici ritengono che conoscere equivale a discendere in noi stessi per trovare quella chiave che spieghi tutti i fenomeni; Schiller si esprimeva in tal modo:
“Tutto ciò che è in me è soltanto il geroglifico di una forza che mi è affine. Le leggi della natura sono i segni cifrati che l’Essere pensante ha combinato alla scopo di rendersi comprensibile all’essere pensante. Se vuoi convincertene, cerca all’indietro.”
Risulta alla fine abbastanza chiaro come il romanticismo rappresenti un deciso mutamento di prospettiva rispetto alla tradizione illuminista: delusi dalla “natura oggettiva” degli scienziati, che spiegava il mondo come un insieme di relazioni fattuali legate fra loro da cause efficienti, sorge un modo nuovo di concepire la natura. Se ci ricolleghiamo per un attimo ad un filone di pensiero vitalista e dinamicista, ad esempio Leibniz o lo stesso Kant, e dall’altro riprendiamo la visione antico-rinascimentale della natura, i romantici pervengono ad una immagine della natura basata sui vari elementi:
L’orgnicismo- la natura è una totalità organizzata nella quale le parti vivono solo in funzione del Tutto
Il vitalismo- la natura è una forza dinamica vivente ed animata
Il finalismo- la natura è una realtà strutturata secondo determinati scopi immanenti o trascendenti
Lo spiritualismo- la natura è qualcosa di intrinsacamente spirituale ossia uno spirito in divenire
La struttara dialettica- la natura organizzata secondo coppie di forze opposte, formate da un polo positivo ed uno negativo e costituenti delle unità dinamiche.
Da quanto finore detto se ne ricava che anche la stessa concezione della ragione mutò in quanto lo spirito dell’uomo venne interamente interpretato come una manifestazione dell’unica forza cosmica vitale. La facoltà della ragione, che Kant ha indica come responsabile dell’impulso dell’uomo, ad andare altre i limiti sensibili della conoscenza, è esaltata per i suoi aspetti antiintellettualistici: mentre l’intelletto si ferma alla superficie visibile dei fenomeni, la ragione ne ricerca l’intima essenza, postula la libertà della natura; la vita dietro i fenomeni apparentemente meccanici della materia inerte. La ragione è la facoltà dell’unità profonda, là dove l’intelletto è la facoltà della distinzione superficiale.
Presso i romantici, dunque, la concezione della ragione è assai lontana dalla visione cartesiana. Da questo punto di vista non è assolutamente possibile sostenere che i romantici, in filosofia, esaltano il sentimento contro la razionalità illuministica. La conoscenza della natura che porta allo spinozismo mistico non è infatti un prodotto del sentimento, ma della razionalità: solo che la ragione non va contrapposta al sentimento, ma va vista nella sua profonda unità con esso.
La natura va “sentita” intuitivamente con un atto di “intuizione razionale”.
Prendiamo ora in considerazione il pensiero leopardiano. Esso lo si può inserire come visione tra illuminismo e romanticismo, tra visione razionale e affettiva nei confronti del mondo ed in particolar modo della natura. Il suo pensiero non ha uno sviluppo organico e sistematico, perché non si forma in una pura sfera mentale e astratta, ma vive in relazione col sentimento; quindi, da una parte le conclusioni cui perviene sono una conferma logica, una convalida razionale di intuizioni e moti sentimentali, dall'altra queste stesse conclusioni razionali provocano profonde risonanze affettive.
In definitiva il pensiero leopardiano rimane escluso dal puro momento della scientificità, intrinseco alla filosofia, ma è sempre connesso con le concrete e reali situazioni umane e storiche.
Questa relazione fra filosofia, sentimento e cultura giustifica la maniera personale con cui Leopardi interpreta le tendenze filosofiche del Settecento. Il problema centrale è quello della felicità. La tendenza naturale dell'uomo. In cosa consiste?
1. Adeguamento della realtà ai desideri, alle aspirazioni; nella sintesi ideale-reale.
2. Nella durata senza termine.
L'esperienza dimostra il contrario: la realtà non corrisponde mai alle aspirazioni; tutte le cose hanno un'esistenza limitata. Leopardi fa questa constatazione non soltanto sulla base della propria personale esperienza, ma su quella che è stata definita (Timpanaro) "la delusione storica": il crollo del mito della ragione, del fiducioso ottimismo illuministico.
La ragione doveva distruggere per sempre la barbarie, la superstizione, instaurare l'uguaglianza e la democrazia, riportare a un giusto e sano equilibrio con la Natura; ma la ragione ha fallito: la rivoluzione da essa prodotta si è trasformata nel dispotismo napoleonico e nella Restaurazione.
La ragione ha conseguito un solo scopo: ha smascherato il vero volto della realtà. Quindi la prima risposta al problema della felicità è il riconoscimento di una incomponibile antitesi tra contrapposizioni:
grandezza <-----> piccolezza
illusioni <-----> ragione
ansia d'infinito <-----> limiti del reale
Natura <-----> uomo
La Natura buona concede le illusioni, che costituiscono la sola felicità possibile. C'è quindi un'epoca dell'umanità, un'età del singolo, non priva di qualche forma di felicità, perché non priva di illusioni. Poi la ragione mostra il vero. Questo rappresenta il cosiddetto "pessimismo storico", che non è ancora a rigore, pessimismo, perché non si è ancora assolutizzato ed eretto a sistema e riconosce un qualche valore di felicità all'illusione.
A tali conclusioni erano possibili due sbocchi:
1) Contrapporre alla ragione la fede in un mitico regno dello spirito, in un Dio causa e fine della realtà e della vita.
2) Portare fino in fondo l'analisi razionale del rapporto uomo-Natura, in termini totalmente demistificati. In Leopardi è troppo sviluppato il razionalismo per ricorrere alla scappatoia religiosa, troppo radicate le tendenze scettiche, atee, materialistiche e illuministiche del suo tempo. Il disincanto di Leopardi nei confronti della ragione non può trovare a Recanati il “palliativo” della nuova visione romantica. Vengono poi ad aggiungersi le cagionevoli condizioni di salute, che dovevano fargli sentire acutamente il condizionamento della Natura sull'uomo.
La sua analisi, perciò, prosegue in termini rigorosamente razionali raggiungendo conclusioni definitivamente negative:
1) La Natura non ha dato agli uomini una felicità obiettiva, ma soltanto una felicità velata. Non madre pietosa, ma maligna matrigna, perché ci ha fornito lo strumento che toglie il velo alla felicità e cioè la ragione; la Natura è indifferente alla sorte dell'uomo perché l'universo è un perenne ciclo di distruzione della materia, di cui non si conoscono la causa e il fine.
2) Nessuna cosa è assolutamente necessaria; nessuna cosa è, veramente. Il principio delle cose è il nulla (teologia negativa). Alla scoperta dell'assoluta negatività dell'esistenza segue la constatazione che anche la felicità non esiste, non è. Si identifica con la non-realtà dell'illusione e perciò è solo futura, come sogno o speranza, o solo passata, come ricordo delle antiche illusioni. L'unica realtà è la non-felicità, il dolore, il male o la spaventevole sensazione fisica del nulla universale (noia). A questa nuova considerazione del rapporto uomo-Natura segue una nuova, capovolta, valutazione della ragione: non più facoltà limitatrice, negativa, ma anzi l'unico valore e l'unica forza cui l'uomo possa appoggiarsi per essere veramente se stesso, fuori dalla paura e dal compromesso.
L'uomo deve accettare con virile fermezza e con coerenza tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La religione negativa non produce sgomento o rinuncia, ma ribellione, che chiama tutti gli uomini a stringersi contro la cieca crudeltà della Natura in una nuova fraternità. Questo messaggio è il contenuto de La ginestra.
In definitiva il pensiero leopardiano rimane escluso dal puro momento della scientificità, intrinseco alla filosofia, ma è sempre connesso con le concrete e reali situazioni umane e storiche.
Questa relazione fra filosofia, sentimento e cultura giustifica la maniera personale con cui Leopardi interpreta le tendenze filosofiche del Settecento. Il problema centrale è quello della felicità. La tendenza naturale dell'uomo. In cosa consiste?
1. Adeguamento della realtà ai desideri, alle aspirazioni; nella sintesi ideale-reale.
2. Nella durata senza termine.
L'esperienza dimostra il contrario: la realtà non corrisponde mai alle aspirazioni; tutte le cose hanno un'esistenza limitata. Leopardi fa questa constatazione non soltanto sulla base della propria personale esperienza, ma su quella che è stata definita (Timpanaro) "la delusione storica": il crollo del mito della ragione, del fiducioso ottimismo illuministico.
La ragione doveva distruggere per sempre la barbarie, la superstizione, instaurare l'uguaglianza e la democrazia, riportare a un giusto e sano equilibrio con la Natura; ma la ragione ha fallito: la rivoluzione da essa prodotta si è trasformata nel dispotismo napoleonico e nella Restaurazione.
La ragione ha conseguito un solo scopo: ha smascherato il vero volto della realtà. Quindi la prima risposta al problema della felicità è il riconoscimento di una incomponibile antitesi tra contrapposizioni:
grandezza <-----> piccolezza
illusioni <-----> ragione
ansia d'infinito <-----> limiti del reale
Natura <-----> uomo
La Natura buona concede le illusioni, che costituiscono la sola felicità possibile. C'è quindi un'epoca dell'umanità, un'età del singolo, non priva di qualche forma di felicità, perché non priva di illusioni. Poi la ragione mostra il vero. Questo rappresenta il cosiddetto "pessimismo storico", che non è ancora a rigore, pessimismo, perché non si è ancora assolutizzato ed eretto a sistema e riconosce un qualche valore di felicità all'illusione.
A tali conclusioni erano possibili due sbocchi:
1) Contrapporre alla ragione la fede in un mitico regno dello spirito, in un Dio causa e fine della realtà e della vita.
2) Portare fino in fondo l'analisi razionale del rapporto uomo-Natura, in termini totalmente demistificati. In Leopardi è troppo sviluppato il razionalismo per ricorrere alla scappatoia religiosa, troppo radicate le tendenze scettiche, atee, materialistiche e illuministiche del suo tempo. Il disincanto di Leopardi nei confronti della ragione non può trovare a Recanati il “palliativo” della nuova visione romantica. Vengono poi ad aggiungersi le cagionevoli condizioni di salute, che dovevano fargli sentire acutamente il condizionamento della Natura sull'uomo.
La sua analisi, perciò, prosegue in termini rigorosamente razionali raggiungendo conclusioni definitivamente negative:
1) La Natura non ha dato agli uomini una felicità obiettiva, ma soltanto una felicità velata. Non madre pietosa, ma maligna matrigna, perché ci ha fornito lo strumento che toglie il velo alla felicità e cioè la ragione; la Natura è indifferente alla sorte dell'uomo perché l'universo è un perenne ciclo di distruzione della materia, di cui non si conoscono la causa e il fine.
2) Nessuna cosa è assolutamente necessaria; nessuna cosa è, veramente. Il principio delle cose è il nulla (teologia negativa). Alla scoperta dell'assoluta negatività dell'esistenza segue la constatazione che anche la felicità non esiste, non è. Si identifica con la non-realtà dell'illusione e perciò è solo futura, come sogno o speranza, o solo passata, come ricordo delle antiche illusioni. L'unica realtà è la non-felicità, il dolore, il male o la spaventevole sensazione fisica del nulla universale (noia). A questa nuova considerazione del rapporto uomo-Natura segue una nuova, capovolta, valutazione della ragione: non più facoltà limitatrice, negativa, ma anzi l'unico valore e l'unica forza cui l'uomo possa appoggiarsi per essere veramente se stesso, fuori dalla paura e dal compromesso.
L'uomo deve accettare con virile fermezza e con coerenza tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. La religione negativa non produce sgomento o rinuncia, ma ribellione, che chiama tutti gli uomini a stringersi contro la cieca crudeltà della Natura in una nuova fraternità. Questo messaggio è il contenuto de La ginestra.
Ultimo canto dei “Canti” composto nel 1836 e pubblicato postumo, si propone come luogo dove il Leopardi concentra l'essenza della sua riflessione sul significato della vita ed in sostanza consegna ai lettori le conclusioni definitive cui è giunto. Muovendo dalla visione del desolato paesaggio vesuviano , una volta bello e fiorente,che testimonia la potenza distruttrice della natura, il poeta torna a denunciare le concezioni spiritualistiche e religiose che collocano l'uomo al centro del creato.
Da questa premessa scaturisce un appello utopico alla solidarietà degli uomini in una lotta disperara contro la natura "matrigna" , per una convivenza fondata sul sentimento di fraternità che nasce dalla consapevolezza della nostra fragilità. Implicitamente propone l'odorata e lenta ginestra come simbolo di eroica tenacia nel deserto dell'esistenza . L'uomo, quindi, deve essere capace di reagire alle diversità dell'esistenza come la ginestra , che si piega ma sa reagire e ricrescere.
Da questa premessa scaturisce un appello utopico alla solidarietà degli uomini in una lotta disperara contro la natura "matrigna" , per una convivenza fondata sul sentimento di fraternità che nasce dalla consapevolezza della nostra fragilità. Implicitamente propone l'odorata e lenta ginestra come simbolo di eroica tenacia nel deserto dell'esistenza . L'uomo, quindi, deve essere capace di reagire alle diversità dell'esistenza come la ginestra , che si piega ma sa reagire e ricrescere.
A strofe intensamente ricche (come la prima) si alternano strofe polemiche (come la seconda) e strofe di amplissima meditazione cosmica (come la quarta) . Le parole sdegnose nei confronti del proprio tempo che rinveniamo in "La Ginestra" non costituiscono l'espressione di uno spirito reazionario, ma l'espressione di un animo che già aveva in se stesso, sin dalla prima maturità, esaurito e condannato i principi su cui si appoggiava la borghesia europea, per una divisione più avanzata dei rapporti umani, non volta alla guerra spietata delle libere iniziative, dei commerci, ma alla confederazione fraterna degli uomini contro la comune nemica. Non dunque una posizione reazionaria, ma volta, come in nessun altro componimento, alla pietà degli uomini, alla consapevolezza di un preciso dovere sociale, ad una volontà di messaggio, di evangelizzazione. L'uomo è un essere casuale e senza scopo nell'immensità della vita universale, sottoposto ai capricci della natura distruttrice, alla quale non può opporre altro che il suo forsennato orgoglio privo di senso. Tuttavia essere cosciente della verità, quindi della propria condizione esistenziale è, secondo Leopardi, l'unica dignità, la sola nota di merito concessa all'uomo. La poesia è dunque incentrata sulla fragilità dell'uomo e sulla malvagia potenza della natura, contro la quale l'essere umano non può nulla. Stolto l'uomo, agli occhi del Leopardi, che nutre tanto orgoglio per le proprie scoperte e le proprie conquiste, mentre non si rende conto di quanto siano insignificanti. Debole, fragile, passeggero, l'uomo ha dunque una sola vera ricchezza: la sua dignità, ed è questa che deve difendere ad ogni costo, perché è l'unica cosa che lo distingue veramente dall'animale, vissuto e morto senza sapere nulla di sè. E’ questa presa di coscienza pessimistica e allo stesso tempo di riconoscimento dell’uomo che rende il poeta l’unico vero rappresentante di questa concezione della realtà. E’ sì vero che la sua influenza sarà molto presente negli anni che seguiranno la sua morte, ma tutte queste saranno impareggiabili rispetto alla portata cosmologica ed antropologica del pensiero leopardiano. Si può completare la sua concezione considerando la sua persona: uomo colto ed indottrinato da quegli ultimi venti illuministici, non può non affrontare lo scisma uomo-natura che si palesa alla fine dello stesso movimento. Lo si può considerare un post-illuminista che ha ben chiari i limiti e le possibilità del genere umano; limiti che lo portano ad una considerazione negativa della natura e possibilità che concedono nuovamente al genere di potersi rialzare. Il suo individualismo non è altro che conseguenza della distanza del suo pensiero rispetto al suo presente e alla situazione italica intellettualmente poco pronta e lontana dal fervore europeo. In realtà lo si può leggere ed interpretare come una estrema vicinanza all’uomo tanto da porre la soluzione del conflitto nel genere stesso. Si ripone quindi la fiducia nell’uomo che deve superare le contraddizioni presenti in se stesso e nella realtà, proseguendo il suo cammino con la coscienza dell’unione di sé con il genere per vivere in modo degno. Leopardi è inoltre il primo pensatore moderno a decretare la morte come presenza intima nella vita dell’uomo, il primo a renderla accettabile perché inevitabile, il primo a formare una visione totale e non superficiale della vita dell’uomo.
complimenti per la chiarezza e la semplicità con cui srotoli il dicorso che hai nella mente.
RispondiEliminaconcordo molto con quello che dici, soprattutto mi trovi vicino nel momento in cui affermi
"Si ripone quindi la fiducia nell’uomo che deve superare le contraddizioni presenti in se stesso e nella realtà, proseguendo il suo cammino con la coscienza dell’unione di sé con il genere per vivere in modo degno." -e umano.
grazie!