Scaletta della relazione:
- Quadro generale sulla composizione dell’opera e collocazione dell’operetta presa in esame;
- Breve interpretazione dell’operetta;
- Citazione di un passo dello “Zibaldone di pensieri” contenente il concetto cardine dell’operetta;
- Teoria del piacere, felicità ed immaginazione, illusioni: temi del pensiero di Leopardi;
- Breve riferimento a Schopenhauer;
- Ripresa passi dell’operetta in esame;
- Conclusione: impressioni e lettura personale dell’operetta analizzata.
Prima di analizzare l’operetta nello specifico, occorre fare un discorso generale dell’Opera.
Essa, in base al contenuto dei ventiquattro “racconti” (novellette, prose satiriche) che la compongono, può essere suddivisa in quattro gruppi, ad ognuno dei quali corrisponde un particolare centro di interessi:
I° gruppo: concetti di illusione e felicità;
II° gruppo: teorie della natura e del piacere;
III° gruppo: coscienza dei problemi morali dell’uomo riguardo a se stesso e alla società.
Il dialogo in questione può essere collocato nel quarto ed ultimo gruppo, comprendente sei prose in cui ritornano più approfonditi i temi contenuti nelle novellette dei gruppi precedenti.
Considerando le speranze degli uomini in rapporto al perenne trascorrere del tempo, si arriva a quella teoria del piacere che mostra come ogni gioia sia riposta nella speranza portatrice di illusioni, così che gli uomini, anche ricchi e potenti, non vorrebbero mai ripetere la vita appena trascorsa, qualunque essa sia stata, bensì intraprenderne un’altra senza sapere nulla di essa.
La felicità è quindi nella speranza di una vita futura.
Il concetto del dialogo è contenuto nel seguente passo dello Zibaldone: “(…)nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiamo provato più male che bene; e se noi ci contentiamo ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione o ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti” (pp. 42-83, 229-30).
La teoria del piacere sostiene che l’uomo tende sempre a ricercare un piacere infinito, come soddisfazione di un piacere illimitato.
Esso è ricercato grazie alla facoltà immaginativa dell’uomo, con la quale si concepiscono reali cose inesistenti.
Tale facoltà è la felicità umana.
La natura fornisce all’uomo la felicità come strumento per giungere non alla verità, ma ad una illusoria felicità.
Secondo Leopardi, l’umanità poteva essere più vicina alla felicità nel mondo antico, quando la conoscenza scarsa lasciava libero corso all’immaginazione; nel mondo moderno, invece, la conquista del vero ha portato l’immaginazione ad indebolirsi.
Le illusioni (gloria, amor di patria,…) sono secondo natura e costituiscono l’unico antidoto agli effetti di ragione e civiltà, guastatrici del mondo moderno.
Sono le illusioni, paradossalmente, ad essere vere; la realtà è banale.
Anche Schopenhauer parlava della vita come dolore: “La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.” (Schopenhauer, Aforismi)
La vita, per Schopenhauer, non è che l'espressione della Volontà di vivere, irrazionale che è desiderio sempre inappagato: i nostri desideri , il nostro stesso amore non sono altro che l'espressione di questa Volontà irrazionale di vivere, di perpetuare la vita.
Passo significativo nel dialogo:
“Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura.”
La vita che si conosce è la passata, mista di beni e mali ed è per questi ultimi che nessuno vorrebbe riviverla.
La vita futura non si conosce, ma una volta vissuta sarà ugualmente brutta.
Per Leopardi non si può non sperare: il futuro è bello finché resta futuro.
Anche nella vita attuale la speranza è sempre connessa alle nostre aspettative future.
Nonostante sia luogo comune parlare di “pessimismo leopardiano”, ho notato che il poeta-filosofo di Recanati parla di una impossibilità a non sperare, ma anche facendo ciò si ricade inevitabilmente nel circolo vizioso che porta ad una eterna insoddisfazione.
È come se Leopardi definisse l’esistenza quale alternanza di illusione/felicità e disillusione/infelicità; al centro la speranza.
Nel dialogo, se mai dovessi per così dire impersonare uno dei due interlocutori, sceglierei il venditore di almanacchi: sperare è sempre una buona cosa, tiene vivi, allegri; la speranza fa parte dell’animo umano, ci proietta verso il futuro e ci dà motivazioni valide per agire, nel bene e nel male.
Io non vedo, come Leopardi, più male che bene nell’esistenza umana.
Se non ci fosse il male, il dolore, non si conoscerebbe il bene.
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