lunedì 5 aprile 2010

Il riso nell'Elogio degli Uccelli: qualche riflessione

Tre dei testi più affascinanti delle Operette (Cantico del gallo silvestre, Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco ed Elogio degli uccelli) si configurano, nella finzione letteraria, come opere di altrui mano ai limiti della credibilità ed affidabilità: se il Cantico è tradotto a malapena per la complessa eterogeneità della sua lingua e per la sua tessitura metaforico-retorico aliena alla nostra cultura, l'apocrifo è senz'altro falso per metà (come sugerisce lo stesso Leopardi) oltre ad essere stato abbandonato per tempo lunghissimo senza custodia (il che suggerisce manipolazioni ancora più estese). Non meno singolare però il caso dell'Elogio degli uccelli, attribuito alla mano di Amelio Gentiliano, filosofo neoplatonico più volte citato nella Vita di Plotino ad opera di Porfirio, tradotta in latino da Leopardi nel 1814 e fonte altresì dell'episodio immortalato nel Dialogo di Plotino e di Porfirio.
Il testo, come si diceva, è assolutamente singolare non solo perché evidentemente estraneo a ogni documentata produzione del personaggio storico a cui è attribuito, ma anche perché riporta una serie di considerazioni che il pubblico del tempo con immediata associazione avrebbe colto come tratte da Buffon (dal Discours sur la nature des oiseaux - link alla versione francese) (e magari da Bernardin de Saint-Pierre, Études de la nature, un cui passo è ricordato in Zibaldone, 2686), per un verso e  dalla stessa esplicita filosofia leopardiana per un altro. Una recente lettura della stagione filosofica leopardiana che culmina nelle Operette ha inoltre suggerito un paragone importante con il Fedro platonico, che non possiamo qui seguire per esteso pur indicando la fonte critica (F. D'Intino, L'immagine della voce. Leopardi, Platone, e il libro morale, Marsilio, Venezia, 2009).  Alla tessitura dell'Operetta concorrono anche fonti classiche e rinascimentali (Anacreonte: Ode XX su Google Books, vai a p. 111 Virgilio, IV Ecloga, v. 60; Celio Magno: Rime, 43).

Il testo si configura allora in prima battuta, per un lettore ragionevolmente complice, come allusione caricaturale più che come tentativo di realizzazione di uno pseudepigrafo. Leopardi non prova a scrivere un "vero" falso neoplatonico: piuttosto opera scopertamente una fusione intrinseca dell'elemento espressivo ragionevolmente attribuibile all'autore evocato con altri elementi di cultura più tarda, antica e moderna, per svolgere quello che potrebbe definirsi "un pezzo alla maniera di...". A noi lettori l'interpretazione dell'intenzione, se di seria epigonalità, di satira o di puro divertissement...
Le notizie che ricaviamo su Amelio Gentiliano dalla Vita di Plotino sono a cavallo tra l'aneddoto e la rilevanza filosofica, come tipico delle strategie retoriche delle biografia antiche; tuttavia almeno una sembra degna di nota e collegata alla figura e alla prestazione retorica del supposto autore dell'Elogio. Nel cap. 21 si legge infatti che Amelio (pur se filosofo di rango) venne accusato, a differenza di Porfirio, di aver ecceduto nella propensione a divagare e ad argomentare in modo prolisso, non sempre pertinente all'argomento. Ciò lo mise comunque, agli occhi della critica sua contemporanea, un gradino al di sotto di Plotino (e Porfirio) nel rango dei filosofi della scuola pitagorico-platonica.
Proviamo ora  a leggere la scena iniziale del testo, anche in riferimento al Fedro platonico e alla nota scena della descrizione della natura (le rive dell'Ilisso) da parte di Socrate, raro momento di partecipazione del filosofo al fascino dell'ambiente e del paesaggio. Come Socrate,  che si è lasciato trascinare da Fedro fuori città per il desiderio di udire il discorso di Lisia, anche Amelio non sembra in realtà per nulla intenzionalmente interessato ad immergersi veramente nella natura; vi viene tratto dalla sua propria distrazione, forse proprio in rapporto alla  sua intima tendenza a divagare - alla quale non sembra sfuggire se mette mano immediatamente alla penna e scrive un brano certamente acontestuale rispetto alle letture che andava facendo... non solo, ma all'interno del testo compare inoltre un'apparente digressione sulla funzione del riso nella vita umana che è a sua volta di collegamento non immediato con l'occasione del brano stesso.
In un brano d'occasione che andrà a complicare i processi argomentativi di un filosofo disordinato dunque si inserisce un ulteriore passaggio disarmonico e imprevisto, con un paragone e uno sviluppo che molta parte della critica ha giudicato non a caso forzato.
Il nocciolo del discorso non è però peregrino: mentre gli uccelli potranno apparire in una sorta di integrale positività, per la loto motilità, allegrezza e natura canterina (doti che attestano dunque la "gran copia" di vitalità e sensitività), agli uomini sarà dato solo il riso, che interviene nell'operetta come privilegio apparentato alla ragione ma è in realtà, al di là di quella, esito estremo di un processo di incivilimento che ha spento le passioni antiche della specie umana. Così nel riso da un lato si recupera una vicinanza tra l'uomo e la natura (vista paradossalmente nell'operetta in prospettiva rovesciata, come avvicinamento della natura animale alla distinzione della natura umana), ma contemporaneamente  si afferma una sua funzione debole e succedanea, di riparazione dei danni della civilità.
La collocazione destrutturata e l'andamento disorganico del testo, l'incertezza dei registri (tra l'ironico, il satirico e il serio), la forte connotazione simbolica degli uccelli (Galimberti ha potuto vedere nell'operetta un'angelologia!) fanno di questo testo, forse in misura maggiore di ogni altro scritto di Leopardi, un'opera aperta dove la decisione interpretativa, a seconda che privilegi la tessitura sintattico-semantica, la varietà delle fonti e dei riferimenti o la possibilità di una costruzione dialettica di un messaggio, può orientare legittimamente il lettore a diverse conclusioni. A noi sembra opportuno sottolineare che in altri passaggi Leopardi non manca di individuare una dimensione non storica, ma fisiologica e naturale dell'allegrezza (cfr. Zibaldone, 69-70; il passo è opportunamente richiamato da Bazzocchi); resta da decidere se allegrezza e riso siano scambievoli - il che probabilmente non è. E anche questa potrebbe essere una proposta di esercitazione.

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