mercoledì 7 aprile 2010

Stile e pensiero nelle Operette morali

Con riferimento a due importanti testi critici (M. Manotta, Leopardi. La retorica e lo stile, Accademia della Crusca, Firenze, 1998; L. Neri, La responsabilità della prosa: retorica e argomentazione nelle "Operette morali" di Leopardi, LED, Milano, 2008) e a un aforisma di Nietzsche (La gaia scienza, 92 -> link al testo originale) introduciamo alcune considerazioni sul rapporto tra stile e pensiero nelle Operette morali. Ci permettiamo, d'acchito, di considerare che nella saggistica morale lo stile non rappresenta un fenomeno succedaneo o irrilevante ai fini della qualità della teoresi;  tanto più che, per riprendere una battuta dello Zibaldone giustamente enfatizzata da L. Neri (op. cit., p. 85-6), la fonte di conoscenza più forte e convincente per l'uomo non è di tipo deduttivo o calcolistico, ma è quella dell'analogia (cfr. Zib. 66, 3649). Al cuore della conoscenza c'è allora di fatto una capacità retorica di paragone, una capacità di porre similitudini che si muove, evidentemente, al livello della topica. Come suggerisce a ragione Nietzsche nel brano succitato, la capacità immaginativa che presiede alla poesia è dunque ciò che va incatenato e dominato per permettere una buona esecuzione stilistica della scrittura prosastico-argomentativa.
Qual è poi l'impresa filosofica a cui si dedicano le Operette, se non quella di rendere esplicito il paradosso costitutivo della condizione umana, se non ancor di più della ragione tutta? Il noto passo dello Zibaldone che giunge a mettere in discussione il principio di non contraddizione svolge di fatto un'argomentazione autocontraddittoria, perché l'impiego dello stesso principio nella prova della sua falsità o inconsistenza è evidente; (cfr. Zib. 4087, 4099-4101; Leopardi chiosa rispettivamente temi del Malambruno e del Tasso ed, esplicitamente, l'Islandese)  ma questa enunciazione di una struttura paradossale non mira forse, si potrebbe dire, a una lettura speculativa e non formalistica del concetto di essere? Infatti l'inconsistenza del concetto di essere e della sua affermazione attraverso il principio di non contraddizione è colta laddove si afferma la discrasia originaria tra l'essere inteso non come mero ente, bensì come concetto, struttura finalistica, e la sua esistenza in quanto incapace di articolare questa entelechia: è solo qui che la contemporanea posizione della tendenza organica alla felicità e dell'impossibilità concreta di quest'ultima emerge come paradosso.
Considerare ciò come paradosso della ragione significa optare allora per una concezione incarnata della ragione, diversa da quella meramente calcolistica-deduttiva, cioè per una sua lettura morale e speculativa come fenomeno della vita (o, se si preferisce, dell'esistenza). La vita stessa, dunque, sarebbe fattore di disarmonia rispetto a strutture più semplici coerenti e ordinate (le stesse considerazioni che aleggiano nella domanda leibniziana, poi ripresa da Schelling: pourquoi il y a plutôt quelque chose que rien? Car le rien est plus simple et plus facile que quelque chose. De plus, supposé que des choses doivent exister, il faut qu'on puisse rendre raison pourquoi elles doivent exister ainsi, et non autrement. - Leibniz, Principes de la Nature etc. §7). Il problema è che queste strutture semplici e ordinate sono altresì inarticolate: sono i luoghi del "silenzio altissimo" del Cantico del gallo silvestre, cioè i luoghi dove la parola non può più essere e con la sua mancanza viene meno anche la natura enigmatica della realtà, che resta come cenotafio (vien quasi da dire) della parola stessa che ha tentato vanamente di articolarla e nella massiccia freddezza delle cose ha finito per essere riassorbita.
La natura eccedente dell'essere umano si configura dunque proprio in relazione alla parola, come capacità di analogia e similitudine, di paragone e di metaforizzazione: in quello che è di fatto un esperimento di articolazione del "solido nulla", la parola ha la responsabilità di sapere essere vera (perché fedele a un elemento di fondo della razionalità a partire dalla quale si articola), ma anche verace (deve dare cioè parola alla souffrance silenziosa delle cose, dalla luna al filo d'erba), verosimile (incitatoria, capace di "illusioni", capace di fondazione valoriale) e ironica (capace di autocritica, di autolimitazione verso la fondatezza ultima delle proprie espressioni valoriali e morali). L'ironia (ma vorremmo dire meglio l'umorismo) potrebbe allora configurarsi come rapporto tra il verace e il verosimile, tra l'indefettibile certezza del nulla sperimentata prima nel dolore che nel pensiero e la necessità di un ordine umano sopportabile e moralmente sostenibile. Incapaci di fondarsi l'uno rispetto all'altro, non possono che convivere nella tensione della loro conflittualità provvisoria, tutta immanente, essa stessa tragedia ma buffa, laddove alle sofferenze del genere umano corrisponde l'indifferenza della natura; alla magniloquenza dei valori civili e politici la fragilità degli ordinamenti storici e sociali; al mistero del mondo e della vita, racchiuso nel nulla, la varietà anche un po' importuna di metafore e di simboli con cui l'uomo, in fondo ingenuamente, lo aggredisce.
Si chiude così lo sviluppo di questo intervento: senza le risorse molteplici dello stile non solo non è possibile dare luogo ad una funzione fondativo-morale della ragione (che non può passare che per la mozione retorica degli affetti, accompagnata evidentemente a una prassi coerente come nella figura centralissima al proposito del Teofrasto della Comparazione), ma non è possibile articolare la relazione umoristica tra verità (del nulla e del reale) e verisimiglianza (ordini e valori della vita umana). Solo lo stile permette infatti di ridere della vita in forma non degenerata, non cattiva, non vendicativa (da uomini del ressentiment, per dirla con Nietzsche) e accedere all'ironia dolce e riposata, di tipo socratico, che è la cifra di Eleandro nell'operetta. All'esercizio di questo umorismo trasognato, che attira forse meno l'attenzione della curiosità teoretica che ne è l'altro polo, è dedicata anche, chissà, la riflessione di Cristoforo Colombo sulla beatitudine del sentire i piedi per terra...

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