Il testo discute la teoria di Leopardi secondo la quale, man mano che passa il tempo e l'uomo diventa più infelice, la capacità di ridere aumenta.
Dopo un breve sunto della concezione del riso presentata dal poeta nell'Elogio degli Uccelli si constata come, a dispetto di quanto detto da Leopardi, oggi l'uomo sembri aver in parte perso la capacità di ridere. Questa perdita potrebbe essere causata da un eccessivo restringimento delle nostre speranze, restringimento che ci impedirebbe di raggiungere il distacco necessario per farci ridere.
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La perdita del riso
Ciò che secondo Leopardi rende l'uomo tale, distinguendolo da qualsiasi altro essere vivente ed ergendolo sopra di essi, non è solo l'intelletto – l'uomo viene infatti definito “animale razionale” da Aristotele in poi – né esclusivamente la sua innegabile predisposizione all'infelicità, la sua vita travagliata, la sua incapacità di mettersi una buona volta a coltivare questo benedetto orto accontentandosi di quello che ha. A distinguere l'uomo è il riso.
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La perdita del riso
Ciò che secondo Leopardi rende l'uomo tale, distinguendolo da qualsiasi altro essere vivente ed ergendolo sopra di essi, non è solo l'intelletto – l'uomo viene infatti definito “animale razionale” da Aristotele in poi – né esclusivamente la sua innegabile predisposizione all'infelicità, la sua vita travagliata, la sua incapacità di mettersi una buona volta a coltivare questo benedetto orto accontentandosi di quello che ha. A distinguere l'uomo è il riso.
Il riso è la costante che accompagna tutta l'evoluzione umana, una capacità che si rafforza con il passare delle generazioni: più l'uomo si allontana dalla natura per gettarsi tra le braccia anestetizzanti della civiltà, più ride. La razza umana infatti non nasce con questa capacità, spiega il poeta nell'Elogio degli Uccelli, ma più si va indietro, più l'uomo è primitivo e simile agli animali, più è serio e meno ride.
Si potrebbe forse pensare che, dato che i bambini iniziano a ridere fin da piccolissimi, questa sia in realtà una capacità innata che poco ha a che fare con i fenomeni di costume; secondo Leopardi, però, questi sorrisi non sarebbero altro che un'imitazione di quelli dei genitori e in generale di un mondo che ha già imparato a ridere.
All'origine di tutto sta il vino, o comunque una qualche altra sostanza in grado di annebbiare le coscienze e che cambia di popolo in popolo. Non importa che si trattino di liquori, funghi o erbe, quel che conta è che facciano dimenticare l'infelicità.
Il riso rivela quindi una genesi ben poco frivola, che lo rende una sorta di anestesia dell'anima e che ci fa anche comprendere perché il moderno ride più dell'antico: perché ne ha più bisogno. Gli antichi erano ancora capaci di essere grandi, riuscivano ancora a far girare il mondo intorno a loro e si battevano contro il fato, anche a costo di farsi schiacciare da esso. Si illudevano di vivere in un grande meccanismo ordinato chissà da chi, in cui recitavano un ruolo fondamentale che improntava tutta la loro esistenza; avevano uno scopo, insomma, e questo li avvicinava alla felicità.
Ma l'uomo moderno, il contemporaneo di Leopardi, lui sa. Lui sa molto più di quello che gli converrebbe, il che gli impedisce di illudersi dell'esistenza di un ordine superiore: si è trovato faccia a faccia con il nulla, ha compreso l'assurdità dell'esistere, e ne ride.
Il riso leopardiano non è da confondere con quello dell'oltre-uomo, risata con la quale egli rivendica con fierezza la libertà conquistata con il più folle omicidio della storia. Leopardi parla invece di quella che è a conti fatti una forma di pazzia momentanea, che ha poco a che spartire con la ragione (il che è tutt'altro che un male, data l'overdose di quest'ultima subita dalla società moderna), assolutamente ingiustificata data la radicale insoddisfazione in cui l'uomo vive e sulla quale ci sarebbe ben poco da ridere.
Certo entrambi mantengono una certa dignità tragica: per Nietzsche – come detto sopra – il riso è simbolo di un atteggiamento attivo proprio dell'oltre-uomo, che reagisce ad una condizione nuova e spaesante prendendo in mano la situazione. Quanto a Leopardi, nella sua concezione il riso – e più nel particolare la satira – non è qualcosa che contraddica la forza del pathos lirico, ma è piuttosto l'altra faccia della disperazione leopardiana: il mondo continua ad essere un luogo d'infelicità ma l'uomo moderno sa fin troppo bene di non poterlo cambiare, quindi tanto vale consolarsi con il riso invece che piangersi addosso.
Più si va avanti più si dovrebbe saper ridere, eppure pare che l'uomo contemporaneo abbia disimparato a farlo. Non parlo ovviamente del riso basso – quello che sale alla bocca quasi senza passare per il cervello, come quando ridiamo per una caduta buffa – ma quello che smaschera le menzogne e che fa da arma contro le ipocrisie del mondo.
Capita a volte di trovarsi a guardare alla televisione un programma di satira come ce ne sono tanti; l'attore di turno fa un ritratto impietoso della nostra società, pronuncia battute brillanti, la sua gestualità è quella giusta e noi sappiamo che fa ridere, ma non ci riesce proprio e l'unica cosa che riusciamo a provare è una grande stanchezza, quando non ci dà perfino fastidio.
Nell'Arte del Romanzo Kundera fa una citazione di Gogol: «Se si osserva a lungo una storia buffa, essa diventa sempre più triste», ma in tanti casi quel “a lungo” sembra essersi ristretto fino a permettere a malapena l'ombra di un sorriso.
Con il passare degli anni e con il stringersi ulteriore di quella società “stretta” di cui si lamentava già Leopardi – e dire che non aveva ancora idea di che cosa fosse la società di massa – con la globalizzazione e con l'incredibile evoluzione dei mezzi di comunicazione, lo spazio è diventato decisamente poco. Ormai stiamo stretti sia nel mondo che in noi stessi e non abbiamo più grandi spazi in cui lasciar andare il pensiero, non ci è rimasto neanche un briciolo di grandezza. La televisione, internet e le riviste ci fanno conoscere i fatti con una velocità e una precisione un tempo impensabili, notizie che una volta non sarebbero mai arrivate fino a noi, e così perfino le grandi tragedie si sono avvicinate sempre di più, perdendo il loro carattere di eventi eccezionali; ogni cosa è già accaduta decine e decine di volte, non c'è più di che stupirsi. Di tanto in tanto osiamo osservare i crimini più truculenti, quelli così orrendi da sembrarci inverosimili, ma lo facciamo con un voyeurismo perverso che assomiglia alla sbirciatina nel buco della serratura del vicino; non sgraniamo più gli occhi di fronte alla tragedia di Medea, ma la releghiamo in un angolo insieme alle sue emuli. Siamo circondati da pazzi da cui cerchiamo di scappare, assassini, stupratori, truffatori che girano tra noi irriconoscibili e che si sommano ai problemi di tutti i giorni: non possiamo rilassarci, non possiamo permetterci di prenderli poco sul serio. Siamo terrorizzati dalla frequenza con cui tragedie una volta eccezionali (o così pareva) si verificano, così ci barrichiamo dietro i nostri problemi e ci concentriamo solo su quelli, senza guardarci seriamente intorno.
Per cogliere il ridicolo di certe situazioni dovremmo da una parte comprenderle, ma dall'altra anche coglierle con quel minimo di distacco che ci permetterebbe di guardarle leggermente da fuori. Noi invece siamo così chiusi nel nostro piccolo guscio, così desiderosi di difendere i nostri interessi e le nostre idee dall'assedio dei nostri scomodi vicini da ignorare spesso i problemi degli altri, forse timorosi di esserne “contagiati” – il che ci impedisce di riderne – e da prendere troppo sul serio i nostri – il che ci rende dannatamente suscettibili. L'uomo contemporaneo vive con i nervi scoperti e basta dare un'occhiata ad un forum qualsiasi su quella grande (e affollata) piazza che è internet per renderci conto che il senso dell'umorismo, nonché la capacità di ridere, sono doti in via d'estinzione.
Ci sentiamo in trappola, vorremmo scappare dal mutuo, dai figli, dalla scuola, dalla politica, dai criminali, ma il mondo è piccolo, non ci sono isole inesplorate da scoprire, né paesi abbastanza lontani da permetterci di sparire e crearci una nuova identità e una nuova vita; ci rimane forse lo spazio infinito, ma non pare una prospettiva neanche lontanamente realistica per l'uomo medio. Per quanto possa sembrare strano, abbiamo ancora meno illusioni di quante ne potesse avere un contemporaneo di Leopardi e questo non incrementa per niente la voglia di ridere, checché ne dica il nostro poeta.
Certo, se anche ci fosse una via di fuga, un'illusione decente a cui aggrapparsi, probabilmente non faremmo niente – ed è esattamente quello che la gente comune ha fatto per secoli – ma quanto meno avremmo una finestra da cui entrerebbe un po' d'aria fresca e potremmo sognare di attraversarla un giorno. Invece così quando sentiamo il suono di una risata l'unica cosa che riusciamo a fare, mentre guardiamo le pareti impenetrabili della nostra cella, è chiederci cosa stanno ridendo a fare.
La ringrazio del suo intervento molto sentito. Proverei a riflettere sulla natura critica e ribelle del riso che non è solo manifestazione di uno stare a proprio agio in un contesto, ma dimostrazione di estraneità. Forse proprio chi sia riuscito a togliersi da quel contesto soffocante che lei invoca può ridere proprio nel senso che Leopardi indica. Insomma non è detto che siamo davvero inchiodati nel moderno senza via d'uscita diversa dall'acquiescenza o dalla sofferenza. Che ne pensa?
RispondiElimina"IL BRUTTO come tutto il resto deve star nel suo luogo: e nell'Epica e lirica avrà luogo più di raro ma spessissimo nella Commedia Tragedia Satira [...]"
RispondiElimina(Zibaldone,2)
"Quanto a me, ho cercato una giustificazione estetica: come è possibile la bruttezza nel mondo? - Ho considerato la volontà di bellezza, di persistere nelle stesse forme, come un mezzo temporaneo di conservazione e di risanamento; fondamentale mi pare però che quanto eternamente crea sia ciò che è legato al dolore. IL BRUTTO è il modo di considerare le cose quando si vuole riporre un senso, un nuovo senso in ciò che è divenuto privo di senso; forse la forza accumulata che costringe chi crea a sentire tutto ciò che finora è esistito come insostenibile, fallito, degno di essere negato, brutto."
(Nietzsche)
Certo, ridere è spesso un modo per esprimere un disagio legato al mondo che ci circonda, ma presuppone appunto una qualche via d'uscita, il non sentirsi completamente in trappola.
RispondiEliminaMi pare che la società "ancora più stretta" contemporanea renda la cosa molto più difficile, in quanto diventa molto più duro staccarsi anche solo in parte da essa.
il vecchio e benedetto senso del pudore..l' educazione per gli spazi condivisi ..la vecchia cabina telefonica..il telefono fisso con la sua seggiolina..le lettere che ci si scriveva al ritorno da una vacanza estiva per ricordare e ravvivare la distanza e l'affetto sincero.il vecchio videoregistratore che finito il film faceva un fracasso per riavvolgersi tutto..nostalgia della tecnologia che fù e che sarà .piccolo uomo alle prese con la vita e il dolore che vuole l'attimo imprigionato cristallizzato finchè morte non ci separi!
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