Ad un livello universale, cosmologico, non ha senso parlare di felicità perché, se possiamo definirla come libero e totale godimento delle cose (come si può imprecisamente dire la definì il Leopardi), e se possiamo definire la libertà in generale come assenza d'impedimento al moto (e dunque libertà e felicità si fanno vicine vicine); allora, per quanto l'uomo si senta (o viva) più o meno libero, certo è che si scontrerà inevitabilmente contro il limite della morte, “abisso orrido, immenso” ove ogni luce, ogni speranza, è destinata a precipitare ed affievolirsi. Quest'abisso, considerando, in un ottica intellettuale, l'insieme delle leggi che reggono l'universo, s'apre, a partire da una certa prospettiva filosofica, nel momento in cui si prende coscienza che queste leggi (“leggi di dio”) altro non sono che una proiezione, una illusione dell'uomo (quella stessa illusione che sorregge il sentimento umano quando sente di godere, di stare godendo un piacere perfetto). Ecco, a livello logico credo che questo abisso possa essere definito una petitio principii, un circolo vizioso che nasce e si risolve nel medesimo luogo, nella medesima proposizione che, non sorretta da altro che da se stessa, ed essendo essa stessa vuota, può dirsi nulla.
Questo a livello universale e, si sa, “felicità” è concetto universale, come dire... nome estremo che non riesce a cogliere se non grossolanamente le sfumature, la gradualità con cui la realtà si manifesta alla sensibilità umana, ovvero il primo e più importante ordine che è ragionevole scoprire.
Dall'universo alla terra allora? No signori, si cadrebbe in un errore simile, forse. Felicità è un concetto dell'uomo per l'uomo, un concetto che descrive un'esperienza del mondo degli uomini. Dunque, dall'universo agli uomini. Qui si apre un orizzonte nuovo: non più felicità come assenza d'impedimento bensì, in una dimensione del tutto umana, interpersonale, politica; felicità (e qui provo a dirlo ma ancora non ho parole per farlo in maniera compiuta) come ragionevole equilibrio tra gli uomini. Ma qui, non si dischiude uno sterminato complesso campo in cui questo concetto rinasce (cambia forse anche nome e si moltiplica!); uno spazio umano, finalmente, in cui questa parola, “felicità”, si apre a nuovi significati e può davvero esprimere il suo potenziale? Qui la filosofia, forse, diventa davvero morale, solo qui, rendendoci consapevoli della scelta che è in essa implicata.
Può essere allora questo il luogo ove dimora lo “scandalo” di ogni filosofia (la pietra d'inciampo ma anche prima pietra) dove non si può solo giudicare una concezione, bensì è necessario anche costruirla.
Le mie conoscenze su Leopardi purtroppo non vanno oltre a quel poco che ho studiato al liceo, a cui si aggiunge qualche verso dell'Infinito studiato a memoria alle elementari; è interessante quello che scrivi e sarebbe bello poter vedere sulla nostra terra, anzi, come specifichi tu, tra gli uomini, uno stato di “ ragionevole equilibrio”, ma quello che non riesco a capire è come tu possa trarre una conclusione del genere dal pensiero di Leopardi.
RispondiEliminaPermetti ad una persona inesperta di provare ad analizzare la questione basandosi solo su quelle poche conoscenze che possiede e sul tuo scritto.
Partiamo dal lato umano, politico, del grande poeta; l'immagine che se ne tramanda è quella di una persona chiusa nel suo mondo e nei suoi studi, malaticcia e debole, che ha passato la sua vita nella casa paterna di Recanati, luogo protetto dalla durezza del mondo e dalle intemperie della vita ( la stessa poesia “L'infinito” non è forse la ricerca di una barriera visiva per poter spaziare col pensiero?). Ma allora come si accorda tutto questo con un pensiero basato sull'uomo e soprattutto realizzato dall'uomo? Un pensiero politico, come lo chiami tu, un pensiero che non è completo se non nel momento in cui se ne può vedere la sua trasformazione in prassi? Come poteva un uomo come Leopardi, un uomo di mente, un uomo che amava il potere del pensiero e la sua infinità, pensare qualcosa che si potesse realizzare tra gli uomini, lui che tra gli uomini non ci viveva?
Quasi sicuramente la mia visione della sua persona è molto riduttiva ma, ecco, diciamo che, avendone una conoscenza molto superficiale che può generare solo impressioni, questo è quello che mi immagino che fosse e che potesse pensare Giacomo Leopardi.
A questo punto mi permetto di analizzare il problema da un punto di vista puramente concettuale.
Tu scrivi che Leopardi definisce la felicità come libero e totale godimento delle cose; una definizione di questo genere presuppone, non uno stato di quiete, ma uno stato di moto,soprattutto quando viene avvicinata e quindi specificata tramite il concetto di libertà, definito come assenza di impedimento al moto. Quindi “il moto” ne fa da padrone, se si pensano le cose in termini dicotomici come si è soliti fare quando si cerca una definizione ad un oggetto, universale o particolare che sia.
Posto questo, non riesco a capire come tu possa traslare questi concetti in ambito politico utilizzando un termine come equilibrio, che io vedo collegato concettualmente ad uno stato di quiete. L'equilibrio, se si va a ricercarne la definizione fisica, da cui ovviamente poi si traggono quelle figurate, è una condizione dei corpi in cui essi rimangono immobili perché sollecitati da forze uguali e contrarie, quindi una condizione di quiete e non di moto. Mi rendo conto che un'analisi di questo tipo è pesante ed invischiata nel pensiero, e non tiene conto delle “sfumature” della vita reale. Ma, proprio perché credo che queste sfumature esistano e debbano essere specificate, scrivo delle cose del genere; perché penso che tu possa cercare meglio e definire con più correttezza quello che intendi, che, messo in questi termini, può, a mio parere, essere frainteso.
Non mi importga di essere frainteso. Chi comprederà queste parole è colui al quale quale queste parole sono indirizzate. Me stesso in primis, ma altri pure.
RispondiEliminaIo conosco, seppur anche le mei "nozioni" siano limitater, un altro Leopardi.
Per quanto riquarda la questione dell'equilibrio non saprei dire. Era chiaramente decontestualizzata dal suo referente specifico per assumere metaforicamente il ruolo che il discorso le dava. Per questo ho detto inizialmente che chi comprederà queste parole è colui al quale quale queste parole sono indirizzate. Il discorso è una trama chiusa tra il suo primo nodo e il suo ultimo.