venerdì 12 marzo 2010

A proposito della teoria del piacere

Tra le varie tematiche elaborate nello Zibaldone e riscontrabili altresì come nucleo essenziale delle Operette morali, le più significativa ai fini della fissazione dell'originalità teorica della meditazione leopardiana va senz'altro individuata nella cosiddetta "teoria del piacere", che, insieme ad un altro cospicuo gruppo di riflessioni sul meccanismo dell'"assuefazione", costituisce l'ossatura di una vera e propria antropologia di rilevante interesse speculativo.
Nella riflessione leopardiana sul piacere si nota l'influsso di due distinte ed antitetiche posizioni illuministiche, a loro volta filiazioni di concezioni morali classiche: un'interpretazione dinamica del piacere, per cui esso è dato dall'attività psicosensoriale e dipende dunque dalla presenza e dall'intensità delle esperienze, delle azioni e delle sensazioni; un'interpretazione statica del piacere, inteso come equilibrio dei mutevoli e spesso antitetici flussi passionali che attraversano l'animo.
La meditazione leopardiana non è però propriamente un'eudemonologia astratta, una teoria della felicità che tematizzi isolatamente la questione del piacere; essa si motiva piuttosto in base ad un'analisi della collocazione complessiva dell'uomo, potenziale soggetto del piacere, nel quadro della natura e della storia.
Ogni essere vivente aspira, per conformazione necessaria della propria indole, alla "maggior vita possibile". Questa aspirazione si manifesta per un verso come "amor proprio" e per un altro come "desiderio". Scrive Leopardi: "Il vivente si ama senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in sostanza non è altro che il piacere"; "Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un bene maggiore, perché il suo amor proprio non cesserà e perché quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può avere limite" (Zibaldone, 646-8).
La psicologia umana si apparenta dunque, in generale, a quella di ogni altro vivente: è dominata da un principio egoistico di autorealizzazione e di conservazione (amor proprio) che si manifesta come esigenza di massima vitalità, di "perfetto amore" e "perfetta compiacenza" del proprio "modo di essere".
La contraddizione essenziale di questa condizione trova spazio, nelle Operette morali, all'interno del Dialogo di Malambruno e di Farfarello: "... negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa". Neppure la condizione dell'atarassia, della mancanza di turbamenti, realizza, come pretendeva la filosofia ellenistica, il piacere: essa infatti comporta necessariamente ancora la persistenza della coscienza, la "sensazione" della "propria vita" - uno stato in cui l'esigenza vitale ed edonistica dell'amor proprio è anzi ancora più urgente, ed il desiderio, proprio perché non impegnato a consumare un diletto, un'esperienza specifica, si manifesta particolarmente insoddisfatto.
Nel quadro della teoria del piacere convergono così altri due temi essenziali, la noia e l'immaginazione. A questo proposito basilare è il percorso argomentativo di una delle operette più riuscite e famose, il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare.
La definizione più matura della noia data da Leopardi la assimila all'"assenza di ogni special sentimento di male e di bene", uno "stato ordinario" in cui il sentimento e la coscienza, privi di oggetti su cui dirigersi, si concentrano allora sull'"infelicità nativa dell'uomo" (Zibaldone, 4498). Già all'epoca della composizione delle Operette morali Leopardi scrive però della noia come "semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all'individuo ed occupantelo". Nel Tasso, "l'essere vacuo da ogni piacere e dispiacere" implica "l'essere pieno di noia", una "passione" che consiste nell'esperienza del "desiderio puro della felicità, non soddisfatto dal piacere e non offeso apertamente dal dispiacere".
La natura dell'immaginazione è ambigua: da un lato allontana dalla percezione del vero, che, pur se dolorosa, è anche però matrice di una speciale soddisfazione conoscitiva, tra le poche di cui l'uomo possa avere esperienza. Nel Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez Leopardi esplicita però una possibilità essenziale e diversa dell'immaginazione, che consiste nella sua capacità di rivalutare e riqualificare agli occhi dell'individuo gli aspetti quotidiani ed ordinari della vita - purché, contemporaneamente, egli si arrischi però nella "solitudine incognita" e nello "stato incerto". Allora l'immaginazione non è più evasione, stordimento simile all'ubriachezza (l'immaginazione del prigioniero, dell'uomo inattivo, del letterato di professione protagonista del Tasso), ma fondamento di un nuovo vivo, per quanto temporaneo, gusto della realtà.
Altro tema caratteristico della concezione antropologica leopardiana è infine quello dell'assuefazione (e assuefabilità): l'uomo apprende e fissa le proprie tendenze per assuefazione, ma è sempre meno stimolato, con l'andar del tempo ed il ripetersi delle esperienze, agli stimoli cui originariamente sia stato peculiarmente sensibile. Questa circostanza può essere addotta come la logica premessa psicofisiologica di tutta la "teoria del piacere": ogni esperienza fissa una soglia di sensibilità che si alza sempre di più e che lo stesso individuo, con gli artifici più vari, innalza alla vana ricerca di un oggetto o di un'esperienza pari all'infinità del proprio desiderare.
La "gran copia" delle sensazioni, dunque l'eccitazione, o l'assenza di sensazioni - e dunque, al limite, la morte? In che consisterebbe infine il piacere? La risposta di Leopardi appare molto originale: nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue Mummie si argomenta che "la maggior parte dei diletti umani consistono in qualche sorta di languidezza" e che "il languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l'uomo da maggiore patimento". Il piacere non è dunque né lo stato di eccitazione sensoriale né quello di assoluta assenza di sensazioni, di imperturbabile annichilirsi dell'io: consiste invece nel venire privati dal dolore e dal tedio ("perché la vita è per sua natura dolore") nel corso di un processo di "depressione del sentimento" che risulta allora, secondo una nota dello Zibaldone, "quasi un'imitazione dell'insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita" (cfr. 4074).

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