Imprigionato nel 1579 nell'ospedale di Sant'Anna, a Ferrara, per un accesso di follia, Torquato Tasso è ritratto da Leopardi mentre si intrattiene con il suo "genio familiare" durante le lunghe interminabili ore della detenzione. Lo spunto dell'operetta deriva da un'osservazione di Ludovico Antonio Muratori, avanzato nel suo trattato Della forza della fantasia umana (1745), che congettura come Tasso (il quale, "gran filosofo", "parlava e rispondeva a se stesso") si comportasse in questo modo perché si era forse "fitto nella fantasia" il genio di Socrate, il famoso daimon che accompagnava la meditazione del pensatore ateniese ammonendolo e dissuadendolo.
Soprattutto nella parte conclusiva di questo capolavoro leopardiano il "genio familiare" impartisce al poeta un ammaestramento caratteristicamente parodistico della maieutica socratico-platonica. Il genio imposta la discussione sul tema del piacere, suggerendo al suo interlocutore la traccia dello sviluppo dell'argomentazione e lasciando che sia l'interlocutore stesso a trarre le conclusioni più significative; sintomatico è altresì il ricorrere dei tipici intercalari del dialogo socratico ("Propriamente parlando", "Certamente").
Successivamente, dopo un significativo "Forse" del genio, che rimette in causa l'assoluta coerenza del ragionamento condotto, irrompe il nucleo tematico della noia; a sollevare l'uomo dalla noia, di cui, a differenza del piacere, ciascuno ha reale esperienza diretta (mentre il piacere è solo "subietto speculativo"), non potrà essere però la ragione, ma solo l'abitudine e l'evasione creativa, fantastica ad opera dell'immaginazione.
I nuclei tematici del testo sono essenzialmente tre:
a) la teoria del piacere, per la quale rimandiamo ad altro prossimo intervento su questo blog;
b) la riflessione sul fenomeno della noia, nella quale viene individuato un fenomeno concreto ed essenziale dell'esperienza della propria vita: tessuto connettivo dell'esistenza tutta, essa riempie gli intervalli tra la percezione del dolore e quella del diletto, peraltro sempre insoddisfacente. Il genio la caratterizza così come "desiderio puro della felicità", quasi una rivelazione dell'essenza stessa della condizione umana nelle sue tendenze più intimamente costitutive;
c) il valore del sogno e della fantasia: mentre in un primo tempo Tasso si dichiara esausto per il "carico della noia", successivamente il genio lo ammaestra sui vantaggi della sua condizione di isolamento e di prigionia. La libertà darebbe al poeta la "varietà delle azioni", che "solleva e alleggerisce" dalla noia; l'isolamento, però, ne acuisce la separazione dalla vita reale e rende quindi quest'ultima, ai suoi occhi, ben più desiderabile ed apprezzabile. L'immaginazione amplifica il desiderio del poeta e gli fa dunque stimare le cose umane ben al di là della loro oggettiva "vanità e miseria". Ed è così che, mediante il sogno e la fantasia, l'immaginazione aiuta l'uomo a consumare il suo tempo nelle attese e nelle speranze.
Una nota dello Zibaldone (1178-9) afferma che Tasso fu impedito dal "troppo vedere" e dal "troppo concepire" a raggiungere la perfezione nell'esercizio delle proprie somme facoltà di letterato. Tasso può dunque essere considerato la maschera della condizione rischiosa dell'intellettuale moderno, il cui "genio" è troppo acuto, lucido e consequenziale per consentirgli una completa fede nel valore oggettivo del proprio impegno letterario-culturale.
L'elemento più cospicuo del testo, in termini filosofico-ideologici, è la duplice riserva adombrata tanto nei confronti dell'attivismo vitale che dell'evasione poetico-letteraria: tanto nel primo che nel secondo caso risulta impossibile alleviare completamente la noia e sopperire all'inesorabile trascorrere del tempo tra delusione del piacere, noia e dolore. Nel Dialogo della Natura e di un Islandese, infine, Leopardi dichiarerà l'insufficienza di fronte al problema dell'infelicità e dell'inquietudine anche della più raffinata eudemonologia filosofica: la dottrina della felicità come atarassia, di cui l'Islandese è fautore (aspira infatti a tenersi "lontano dai patimenti", a "viver quieto" e "non godendo non patire"; aspirazione impossibile, perché il soffrire dell'insaziabilità del desiderio del piacere è necessario e perché questa scelta di inazione ed isolamento rende infinitamente più ostile e minacciosa la Natura).
Nel Dialogo di Timandro e Eleandro Leopardi riprenderà il tema della vanità di un filosofare soltanto teoretico, incapace di giustificare l'azione, e si esprimerà allora duramente nei confronti della fascinazione data dalla ricerca e dallo studio fini a se stessi.
Il Tasso, l'Islandese e il Timandro vertono quindi, nonostante le loro differenze stilistiche, su temi analoghi: l'individuazione e l'analisi critica degli atteggiamenti puramente soggettivi, mentali, teorici, mediante i quali si cerca vanamente di sopperire alle carenze della condizione umana. Allo stesso modo, però, il semplice agire quotidiano, per quanto vario, "non ci libera dalla noia", soltanto la "solleva": privo di un orientamento morale e di uno scopo nobile, non è altro che un palliativo. All'elaborazione di una morale sottesa all'azione ed all'impegno nella vita quotidiana è dedicata un'altra parte essenziale del pensiero leopardiano, forse solo individuabile in controluce nelle Operette.
Nessun commento:
Posta un commento