Partiamo da un penetrante suggerimento di A. Prete nel suo saggio Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, MIlano, 2006 (link su Google Books). Se le Operette morali, come propone Prete, sono un theatrum philosophicum, in questo teatro quale posto ha la regola dello stile che abbiamo illustrato in un post precedente a partire dalle osservazioni di M. Vitale? Se nel corso del seminario più volte siamo tornati sulla proposta di lettura delle Operette come testo figurale, quanto le prospettive di chiarificazione fenomenologica delle diverse figure della soggettività moderna dipendono dalla capacità della parola di dare voce alle loro sfumature, ponendosi al servizio della loro presentazione, e quanto invece esse sono marionette sublimi, protagoniste di un carnevale che è tutto quanto resta a fronte del lutto permanente dovuto al tramonto delle illusioni e alla signoria della verità? Potrebbero le Operette essere soltanto, al di là della loro critica satirica del moderno, una sfilata ironica delle tipologie dell'illusione specificamente moderna?
Poniamo allora le Operette come theatrum philosophicum, e congiuntamente il contenuto speculativo delle stesse nella gnosi e nel negativismo esistenziale e metafisico colto da interpreti come Rigoni e Galimberti. Ci resterebbe allora come giustificazione dell'esuberanza di stile e di tessitura letteraria e comunicativa null'altro che la sopravvivenza della scrittura oltre la disillusione della civilizzazione moderna. Quindi la scrittura come luogo di elaborazione del lutto e quest'ultimo come condizione permanente della contemporaneità. Ciò ci riporterebbe al problema della melanconia da un punto di vista non più psicologico, ma epocale.
Poniamo allora le Operette come theatrum philosophicum, e congiuntamente il contenuto speculativo delle stesse nella gnosi e nel negativismo esistenziale e metafisico colto da interpreti come Rigoni e Galimberti. Ci resterebbe allora come giustificazione dell'esuberanza di stile e di tessitura letteraria e comunicativa null'altro che la sopravvivenza della scrittura oltre la disillusione della civilizzazione moderna. Quindi la scrittura come luogo di elaborazione del lutto e quest'ultimo come condizione permanente della contemporaneità. Ciò ci riporterebbe al problema della melanconia da un punto di vista non più psicologico, ma epocale.
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